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Tutela dei beni culturali, Borbone e Stato Pontificio a confronto

Rivolgere lo sguardo alla normativa di tutela dei beni culturali ed archeologici  inaugurata a Napoli nel periodo borbonico con la prammatica del 1755, significa, necessariamente, confrontare tale risultato con la produzione legislativa in materia dello Stato Pontificio; ciò sia per l’oggettiva importanza che quest’ultima riveste, sia per la sua influenza nei riguardi del legislatore napoletano, che guardò ad essa come punto di riferimento a guida della sua azione.

 Lo Stato della Chiesa si presentava quale eccezionale contenitore di beni dall’imponente valore storico, artistico e culturale, che nei secoli avevano arricchito il territorio pontificio, oltre che  le collezioni papali e nobiliari. Non deve stupire quindi che esso poteva vantare, al Settecento, la più antica tradizione di tutela del patrimonio tra gli Stati preunitari, con una serie di norme volte ad ostacolare la distruzione e la dispersione dei capolavori e delle testimonianze che  Roma e tutto il territorio papale possedevano in gran numero.

I primi provvedimenti organici  in materia risalgono al XV secolo, con la Bolla papale “ Cum almam nostram Urbem” del 1462, emanata durante il papato di Pio II (1458–1464), che vietava la demolizione, la distruzione e la  rovina di monumenti e antichi edifici pubblici, pur situati in proprietà privata, senza espressa licenza reale; per i trasgressori  si prevedeva la scomunica, il carcere e la confisca dei beni. Del 1474, a nome di Sisto IV, la Bolla “Cum provida”, con la quale si interveniva per impedire la spoliazione fraudolenta di marmi ed antichi monumenti dalle chiese. Questi primi interventi provano come, con il passare del tempo, aumenti la consapevolezza di dover intervenire attivamente in difesa del valore inestimabile del patrimonio nazionale. Durante il  XVI secolo si continua su questa strada, con la significativa istituzione della carica di “Prefetto delle antichità”,  soprintendente incaricato di vigilare sulla conservazione delle opere d’arte e di impedirne l’esportazione da Roma. Nel Seicento, sotto il pontificato di Urbano VIII (1623-1644), si assiste all’emanazione di una norma, datata 1624 e  firmata dal cardinale Ippolito Aldobrandini, che proibisce l’estrazione di statue e di antichità, ribadendo ancora il divieto d’esportazione già presente nei precedenti testi e disponendo pene pecuniarie per i trasgressori. Questo editto è basilare per lo sviluppo successivo della materia in quanto introduce un funzionale elenco degli oggetti da sottoporre a tutela; elenco che sarà ripreso negli editti del Settecento e che diverrà sempre più ampio e dettagliato.

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Papa Benedetto XIV

Intanto con l’inizio del XVIII secolo il collezionismo, lo scavo clandestino, le esportazioni senza permesso e le falsificazioni, conoscevano una stagione di grande fermento, e si faceva  sempre più pressante l’urgenza di un intervento più articolato e deciso, che potesse incidere sensibilmente sulla questione. Sulla base delle esperienze accumulate, frutto di una precoce sensibilità culturale del legislatore pontificio, si arrivò nel Settecento all’emanazione di testi legislativi molto interessanti. E’ sotto il pontificato di Clemente XI (1700-1721) che l’attività di tutela conosce significativi sviluppi; in primis con i due editti del cardinale Spinola. Il primo, datato 1701, è titolato “De proibizione sopra l’estrattione di statue di marmo o metallo, figure, antichità e simili”; il secondo, del 1704, “ Editto sopra le pitture, stucchi, mosaici ed altre antichità, che  si trovano nelle cave, iscrizioni antiche, scritture e libri manoscritti”.

 Passando poi attraverso altri episodi legislativi notevoli, come quelli del 1726 e del 1733 “Sull’estrazione delle statue di marmo o metallo, pitture, antichità e simili”, emanati dal cardinale Albani, si  arriva all’editto che più di tutti costituisce il punto di riferimento per la  normativa napoletana. L’editto Valenti rappresenta l’apice della legislazione settecentesca di tutela dello Stato Pontificio e non solo. Emanato durante il pontificato di Benedetto XIV (1740-1758), firmato dal cardinal Silvio Valenti Gonzaga,  segretario di Stato e camerlengo dal 1747, l’editto tentò di dare una sistemazione  alla legislazione prodotta tra il XVII ed il XVIII secolo. In esso si cercò di proporre, al di là dei dettagliatissimi elenchi tipici della tradizione legislativa precedente, una definizione dei beni sottoposti a tutela che fosse onnicomprensiva, attraverso la definizione di una formula generale. Si vietava  nuovamente l’esportazione di cose antiche e si disponeva  la conservazione delle raccolte, estendendo il divieto anche agli ecclesiastici. L’innovazione importante, che il legislatore borbonico recepì nella formulazione della prammatica del 1755, fu l’istituzione dei tre assessori che, accanto al precedentemente istituito Prefetto delle antichità, avevano l’incarico di valutare i beni ai fini della concessione o meno di licenze d’esportazione; furono nominati gli assessori per la pittura, la scultura e per le cose antiche. Il dispaccio napoletano, seguendo fedelmente questa impostazione, istituisce altrettante persone incaricate della ricognizione del materiale di interesse culturale, operando la stessa distinzione tra generi artistici ed in tal modo accogliendo nel suo impianto una importante innovazione che “introduce all’importante tema della gestione tecnica ed amministrativa delle funzioni di salvaguardia legislativamente imposte” .

 Un punto di distacco tra le due impostazioni è rappresentato invece dall’elenco dei beni soggetti a tutela; gli elenchi stilati nelle varie normative pontificie sono più dettagliati ed evidenziano la preoccupazione di non lasciare nulla fuori dall’ambito di tutela, laddove l’elenco contenuto nella prammatica del 1755, pur essendo preciso, è meno ampio. Dal punto di vista delle pene per i trasgressori,  l’impianto sanzionatorio previsto dal testo partenopeo si presenta più repressivo e “ ciò dà la misura della preoccupazione di Carlo di Borbone e […] della fiducia riposta nel potere dissuasivo delle pene”; infatti di fronte alle previsioni del testo pontificio di pagamento di pena pecuniaria, di perdita degli oggetti e di recupero di essi a favore delle collezioni papali del Campidoglio, nella prammatica si prevedeva la pena di detenzione e si equiparava il tentativo di furto al reato compiuto.

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Carlo di Borbone

 Anche dal punto di vista delle finalità dell’intervento le norme presentano alcune divergenze. L’editto Valenti, in continuità con le norme precedenti pontificie, ed in particolar modo con i due editti del cardinale Albani, nasce con la finalità primaria di salvaguardia del pubblico decoro della città di Roma e dello Stato, al fine di conservarne intatte le attrattive turistiche e di studio. Nella prammatica del Regno borbonico, invece,  l’obiettivo si sposta e la  “[…] salvaguardia dell’identità storica e patrimoniale del Regno assume carattere di assoluta preminenza […]”,  e tutti i “[…] molteplici indotti economico – culturali […]” della tutela sono considerati tra i vantaggi che altri paesi hanno tratto dal depauperamento del patrimonio del  Regno. Un’altra diversità tra i due bandi sta nella circostanza che il legislatore napoletano recepisce  solo il divieto dei beni artistici ed archeologici e non l’obbligo di autorizzazione regia per l’avvio di attività di scavo, come le leggi pontificie prevedevano. D’altronde, per quanto riguarda il Regno borbonico “l’idea di una limitazione delle attività di scavo sembra riferirsi ad una concezione pubblicistica” che avrebbe dovuto ancora attendere per affermarsi pienamente, data la distanza di essa dalle concezioni prevalenti in quel periodo storico nel Regno. Nel territorio pontificio invece, la più radicata cultura di tutela del patrimonio, unita al diverso ordinamento giuridico,  permetteva che un tale obbligo potesse affermarsi pienamente.

In conclusione il confronto tra i due impianti normativi chiarisce l’esistenza di un rapporto tra le due impostazioni. Il sistema di tutela dello Stato Pontificio,  che raggiunse il punto focale con l’editto Albani e che in seguito riuscirà a conseguire un risultato di grande spessore e modernità con l’editto del cardinal Pacca, rappresentò un esempio da seguire per il legislatore napoletano. Quest’ultimo seppe cogliere i punti chiave della normativa pontificia, rielaborandoli, dove necessario, alla luce delle peculiarità dei tesori ereditati dagli scavi archeologici e delle esigenze che la difesa di essi poneva. Il provvedimento napoletano rappresentò uno dei punti più significativi di tutta la storia della tutela dei beni culturali, fungendo, insieme alla normativa pontificia, da punto di riferimento per gli interventi successivi nel settore.

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