Le operazioni di scavo nel sito di Ercolano portarono alla luce, sin dai primi momenti, una grande quantità di oggetti antichi e preziosi, che il re qualificò subito quali beni di sua esclusiva proprietà, destinata ad essere esibita come testimonianza dello splendore del Regno e del prestigio del monarca. Tutte le azioni intraprese dagli addetti materialmente allo scavo erano indirizzate al fine di ingrandire la collezione di Carlo, che si accrebbe in modo continuo, fino a diventare la più ricca e preziosa raccolta di antichità classiche del tempo.
La nascita del Museo Ercolanese. Nel primo periodo i reperti andarono ad abbellire il Palazzo Reale di Portici. Le preziose statue antiche rinvenute a Resina adornavano il cortile o decoravano le fontane nel parco della villa; alcune statue equestri facevano bella mostra di sé nei grandi vestiboli del Palazzo superiore ed inferiore ed altri pezzi apparivano qua e là, caratterizzando la nuova residenza. Anche gli appartamenti privati reali erano ornati di oggetti particolari e di straordinari mosaici, estratti in gran numero dal sito ercolanese. A fronte dei tanti ritrovamenti, e dato che sin dal principio nel palazzo si volevano esporre quante più statue possibili, si avanzò l’idea di creare una galleria interna, progetto che però non fu mai realizzato, anche a causa di problemi tecnici legati alla stabilità della costruzione. Ma la quantità e la varietà dei ritrovamenti imponevano oggettivamente una sistemazione adeguata per il materiale di ogni genere che, copiosamente e continuamente, affluiva dagli scavi. Nacque così l’idea di allestire un Museo, all’interno del complesso regale, destinato a diventare la più famosa raccolta archeologica al mondo.
La scelta ricadde su quella parte del nuovo complesso che era stato il palazzo del principe di Caramanico Don Giacomo d’Aquino, acquistato ed inglobato al complesso della reggia di Portici. L’Herculanense Museum, come si poteva leggere sulla porta di ferro battuto che precedeva il cortile, fu inaugurato nel 1758.
L’allestimento del Museo. Il numero di stanze in cui si articolava è stato ricostruito confrontando le varie testimonianze lasciate dai visitatori del tempo; si articolava in diciotto locali adibiti a spazio espositivo. Oltre alle sale che ospitavano i vari e preziosi oggetti d’ogni tipo e i cui pavimenti erano allestiti con i mosaici dell’antica città, si trovavano nel Museo un gabinetto delle pitture antiche, una stanza nella quale erano riuniti oggetti antichi provenienti da tutto il Regno ed un’altra nella quale erano conservati oggetti ritenuti osceni, sconvenienti da mostrare ai visitatori. All’interno del Museo si trovavano anche le stanze adibite a laboratorio per lo svolgimento, la decifrazione e la trascrizione dei papiri rinvenuti ad Ercolano, operazione affidata al padre Antonio Piaggio incaricato dal 1753 di questa incombenza, che presentava notevoli e inedite difficoltà. Il Piaggio aveva approntato una macchina per sfogliare quelli che apparivano nient’altro che rotoli carbonizzati e per i visitatori era di grande interesse osservare il lavoro di trattamento dei papiri, anche se ciò disturbava il lavoro; per questo Padre Piaggio ottenne che, nel 1767, il laboratorio fosse spostato in una stanza fuori dal Museo per poter lavorare tranquillamente. Con l’istituzione del Museo Ercolanese si fa un passo importante verso la definizione e l’ammodernamento del concetto stesso di museo; dal gabinetto privato, nel quale si conservavano e si studiavano i tesori artistici delle collezioni, ci si avvia verso un museo vero e proprio che, pur con i limiti di una fruibilità al pubblico poco agevole e molto selettiva e il forte legame con il re e la residenza reale, propone un percorso espositivo nuovo ed aperto all’osservazione ed allo studio di un maggior numero di persone.
I ritrovamenti ercolanesi, dei quali la corte esigeva un resoconto settimanale, laddove ritenuti idonei a figurare nel Museo, venivano trasportati dagli scavi direttamente al palazzo Caramanico o in uno dei depositi per essere restaurati da Giuseppe Canart, che compilava alla fine del mese un elenco dei lavori eseguiti. Gli oggetti riportati alla luce aumentavano di numero in modo continuo, impreziosendo a ritmo velocissimo le sale dell’Ercolanese. La concezione espositiva dell’Ercolanese risultava così ininterrottamente modificata, a seguito del continuo arricchimento che l’avanzare dello scavo consentiva; a questo sono anche dovute le discrepanze tra le ricostruzioni dei vari visitatori che, a più riprese, tentarono di redigere piante del Museo. Gestione e concezione espositiva. Le difficoltà per i visitatori erano la diretta conseguenza dei divieti e delle limitazioni che la corte impose loro e che consistevano nell’ardua impresa di ottenere un permesso, nella tassativa interdizione a prendere appunti e nell’attentissimo controllo da parte dei guardiani che, con massimo zelo, impedivano ai visitatori di approfondire troppo la loro curiosità. Il compito di vigilare sui visitatori, affinché nessuno potesse violare il monopolio d’illustrazione delle antichità, fu affidato al custode del Museo Camillo Paderni. Questi soprintendeva al rilascio dei permessi di entrata al Museo, operanti solo con la firma del Segretario di Stato, e dirigeva meticolosamente le operazioni di vigilanza dei visitatori. Emblematica risulta l’apposizione, all’entrata del Museo di cartelloni, ideati dal Paderni stesso, recanti l’avviso, scritto in lettere cubitali, “Si vede e non si tocca, altrimenti dal custode riceveranno affronto”.
L’atteggiamento chiuso e sospettoso verso i visitatori dell’Ercolanese suscitò vive polemiche da parte degli studiosi che, desiderosi di studiare approfonditamente i reperti, si trovavano a poterli osservare solo in modo superficiale e sotto stretta vigilanza. Le polemiche degli studiosi, volte a palesare il rammarico nei confronti di una politica culturale che faceva della mancanza di pubblicità e della ristrettissima possibilità di accesso e studio dei reperti il suo tratto distintivo, ben sono rappresentate negli scritti di Charles de Brosses che, in un passo di una sua lettera del 1759, ribadisce “[…] li ho potuti vedere solo in parte ed in fretta e furia […]. Gli uomini che vi mostrano queste antichità sono rozzi ed estremamente gelosi ; essi credono, penso, che uno voglia rubare le loro ricchezze con gli occhi.” La corte si era riservato il diritto di pubblicare ciò che gli scavi restituivano; per questo le “informazioni diffuse dai visitatori non dovevano essere troppo dettagliate, bastava che loro divulgassero la gloria del Museo per incuriosire gli altri”
Circa la concezione espositiva, la peculiarità dell’Ercolanese va innanzitutto colta nel suo ampliamento ininterrotto che lo rese “[…] un organismo vivente in accrescimento continuo […]”. A Portici l’affluire copioso di oggetti di ogni genere costrinse a “ […] ripensare e a riproporre continuamente l’assetto espositivo […]”, modificando di volta in volta la struttura del Museo. La concezione dell’Ercolanese sperimenta poi un funzionale legame tra museo – antiquarium e sede degli scavi consentendo al visitatore, data la stretta vicinanza dei luoghi, “di ricollegare con facilità, data la limitatezza degli spostamenti richiesti al visitatore, oggetti e contesti, e favorendo pertanto un tipo di conoscenza globale, esperenziale e sistematica assieme, che era quella condivisa dalla più avanzata intellettualità del secolo dei Lumi. Un legame che, ricollegando anche se solo mentalmente ogni oggetto nel suo spazio vitale, gli restituisce ambedue le polarità di ‘documento’ e di ‘monumento’, aiutando così a riconnettere analisi erudita e lettura stilistica”.
Lo spessore dell’organizzazione espositiva e concettuale dell’Ercolanese emerge anche dal rilievo attribuito agli “instrumenti”, i reperti di cultura materiale “ […] delle arti, del traffico, della vita e degli esercizi degli ercolanesi […]”, che si recuperarono in gran quantità; vennero alla luce calamai, martelli, picconi, scuri, suppellettili varie e disparate testimonianze degli usi quotidiani dell’antico popolo ercolanese. Si cercò di illustrare la vita quotidiana del tempo e “ […] dai ritratti in marmo alle statuette decorative […] dalla suppellettile domestica lavorata nel bronzo o nell’argilla agli oggetti utili o preziosi del mundus muliebris, dagli amuleti agli ami di pesca dai resti di cibo e commestibili alle monete di bronzo e d’argento dai candelabri ai tavolini di legno […]” si riuscì a ricavare una conoscenza alquanto dettagliata dell’ambiente domestico dell’ antica città. A tal fine, molto significativa è la ricostruzione, in una delle sale, di una cucina del tempo, il cui allestimento si basava sull’esperienza degli scavatori che, più di ogni altro, avevano vissuto, nel riportare ala luce la città, un contatto strettissimo con la vita degli antichi fino ad allora impensabile. La rappresentazione di un ambiente domestico antico costituisce prova della “validità del concetto di esposizione per contesto realizzata a Portici quasi in un clima di sperimentazione, […] di museografia di avanguardia”. I visitatori venivano riportati indietro nel tempo, lasciati ad immaginare la vita quotidiana di un antico abitante della città di Ercolano.
La gestione rigida ed oltremodo protettiva che si volle per l’esposizione dei tesori dell’antichità recuperati andò sicuramente a svilire la funzione didattico scientifica dell’Ercolanese; funzione che, con una fugace e controllatissima visita, non poteva essere assolta in modo adeguato. Si mostravano i reperti e se ne sottolineava l’importanza solo attraverso la loro presentazione, vietandone tassativamente, con il severo regolamento, lo studio. A Portici il collegamento, pur esistente, tra il museo e la scienza filologica ed antiquaria, il restauro e la pubblicazione aveva lo scopo inderogabile “di curare i tesori del sovrano e di presentarli al pubblico per aumentare la gloria del re”. La regia vis di Carlo di Borbone aveva sottratto l’antica Ercolano dalle fauci del Vesuvio e ciò doveva essere celebrato in tutte le occasioni, né si doveva permettere la commercializzazione di una vicenda che doveva recare indissolubile il marchio della monarchia di Don Carlos.
Un ulteriore elemento a testimonianza che le antichità erano considerate proprietà reale, è costituito dalla circostanza che il Reale Museo Ercolanese fu inizialmente allestito in un edificio già esistente e facente parte del complesso di Portici, senza cercare una soluzione architettonica nuova e indipendente. Negli anni seguenti alla partenza del re per la Spagna, ed a seguito della perdita di importanza degli scavi di Ercolano dopo l’inaugurazione delle campagne di scavo in Pompei e Stabia, il Museo fu al centro di alcuni progetti per il necessario spostamento. La dislocazione dell’Ercolanese presso il Palazzo degli Studi a Napoli, vecchia sede dei gesuiti, avvenne alla fine del 1700, con l’istituzione del Museo Borbonico, che segna il passaggio ad un nuovo modo, ancor più votato alla modernità, di intendere il museo, che predilige la funzione educativa pubblica, qualificandosi quale centro stimolatore di arte e scienza . Il museo usciva dalla residenza reale per assolvere una nuova funzione ed aprirsi ad una più ampia e moderna fruizione. Senza dubbio questa evoluzione coronò un percorso inaugurato a Portici dove, tra le tante contraddizioni, si posero le basi per un nuovo concetto di museo, ancora legato all’idea di collezione reale ma innovativo sotto diversi punti di vista.