“Ma un brutto giorno dell’anno 1806 la famiglia fu costretta a fuggire perché il Vesuvio in eruzione minacciava la casa con una formidabile colata lavica […] si pensava che la casa sarebbe stata inghiottita dalla lava vulcanica. Invece fu distrutto quasi l’intero vigneto ma la casa restò incolume. Dopo alcuni mesi i Ferrigni vi tornarono, si vedeva ancora fumare la lava, e i ragazzi, malgrado le ammonizioni dei genitori, si avvicinarono, curiosi e paurosi, a guardare il fuoco che traspare qua e là sotto le scorie nerastre. A poco a poco sulla lava brulla si andò formando uno strato di terriccio e vi spuntarono le ginestre”
da Storia di una casa di campagna (La villa delle Ginestre e Giacomo Leopardi) di Enrichetta Capece Latro Duchessa d’Andria.
La poesia è un linguaggio potente, riesce a sublimare nei versi pensieri, sentimenti e valori rendendoli universali.
Durante la sua permanenza alle falde del Vesuvio uno dei giganti della letteratura italiana ha confermato una volta di più questo concetto, dando alla luce una delle odi più celebri della letteratura italiana.
Il trentacinquenne Giacomo Leopardi arriva a Napoli nell’ottobre del 1833 in compagnia del giovane avvocato napoletano Antonio Ranieri, spinto dalla necessità di vivere in condizioni climatiche meno rigide rispetto a Firenze e Roma date le sue precarie condizioni di salute. Arrivato a Napoli, il poeta viene presto favorevolmente rapito dalla “[…] dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti” e ne viene stimolato dal clima culturale.
Ma l’epidemia di colera che colpisce la città costringe Leopardi e l’amico Ranieri a cercare riparo fuori città. Ad offrire loro ospitalità il cognato del Ranieri, Giuseppe Ferrigni che accoglie i due nella propria casa in campagna a Torre del Greco.
Comincia così la storia del connubio indissolubile tra questo luogo vesuviano e la poesia del genio recanatese che, in questa villa, poi ribattezzata Villa delle Ginestre, riuscirà a penetrare con la sua lirica il mistero, il fascino e la natura del rapporto tra Vesuvio e vesuviani, tra uomo e natura, con la celeberrima ode “La ginestra”.
La villa, costruita tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento nella contrada al tempo denominata “ncopp ‘a lava” oppure “lava vecchia“, era originariamente appartenuta al professore di teologia del Seminario Arcivescovile di Napoli, Giuseppe Simioli, uomo influente che sovente vi ospitava uomini di cultura e di potere come Luigi Vanvitelli o Bernardo Tanucci. La villa, successivamente, divenne proprietà della famiglia Ferrigni dopo il matrimonio di una nipote del Simioli con Diego Ferrigni Pisone, il cui figlio Giuseppe sposerà poi Enrichetta Ranieri, sorella di Antonio Ranieri.
L’edificio si trova in una zona perfettamente posizionata alle pendici del Vesuvio ed è caratterizzata da una planimetria a pianta quadrata che si sviluppa su due livelli. Il porticato di colonne doriche, di chiara ispirazione neoclassica, che circonda Villa delle Ginestre è un’aggiunta del 1907, quando la proprietà era già passata alla famiglia Carafa. Il porticato sorregge una terrazza panoramica che offre a chi vi si affaccia una spettacolare vista sul golfo di Napoli, sulla campagna circostante, sul Vesuvio incombente e maestoso alle spalle. Sulla terrazza una deliziosa meridiana solare si affaccia sulla campagna di fronte esponendo il motto “Sine sole sileo” (“Senza sole sto in silenzio, taccio“).
Si può facilmente immaginare come, al tempo del soggiorno di Giacomo Leopardi, la villa fosse totalmente immersa nel verde della campagna e ancor più suggestivamente terra di mezzo tra vulcano e mare, tra i due elementi che caratterizzano la terra vesuviana, fuoco ed acqua. Ai due lati della villa, Giuseppe Ferrigni volle far piantare due cipressi, dei quali uno ancora oggi vive raccordando passato e presente ed ergendosi a “testimone” ancora vivo del passaggio del genio di Recanati.
Entrare oggi nella villa significa respirare il passaggio del poeta e sentirne la presenza, come nella stanza del poeta, ambiente al piano superiore che conserva l’arredo originario nella disposizione verosimilmente adottata ai tempi del soggiorno di Leopardi e preservata grazie ad Antonio Carafa anche dopo i lavori di restauro da lui stesso disposti agli inizi del Novecento.
Durante il secolo scorso, la villa delle Ginestre ha conosciuto un periodo di incuria e di oblio salvo passare, nel 1962, nel patrimonio immobiliare dell’Università Federico II di Napoli che l’ha poi concessa in comodato d’uso all’Ente Ville Vesuviane, di cui la villa fa parte pur trovandosi ben al di là del Miglio d’oro.
Questo passaggio in comodato all’Ente Ville Vesuviane, insieme al restauro finanziato anche dal Centro Studi Leopardiani di Recanati, ha permesso alla villa di recuperare un ruolo centrale diventando sempre più fulcro degli studi e delle ricerche intorno alla figura nonché all’opera del poeta.
Questo luogo vesuviano, splendido per posizionamento sul territorio e per la sua architettura, ha ritrovato altresì il valore storico legato alla figura di Giacomo Leopardi ed alla sua, importantissima, produzione letteraria al tempo del soggiorno alle falde del Vesuvio.
La visita alla Villa delle Ginestre offre oggi al visitatore ulteriori spunti nella presenza di un sismografo basato su un sistema meccanico per intercettare i movimenti sismici generati dal Vesuvio e di approfondimenti legati all’artigianato delle “riggiole” napoletane.
Nonostante avesse composto in villa Ferrigni due pietre miliari della sua opera poetica, Giacomo Leopardi sentì presto il richiamo della città partenopea e, pertanto, appena l’epidemia di colera ebbe a cessare, volle ritornarvi. Proprio a Napoli il poeta finirà il 14 giugno 1837.
Il legame tra Giacomo Leopardi e la villa delle Ginestre resterà per sempre impresso nei versi sublimi de “La ginestra” nella quale il poeta trae dal soggiorno in questo luogo alle falde del Vesuvio l’ispirazione per una lucida, amara riflessione sul rapporto tra uomo e natura, sulla cecità del primo e l’ineluttabilità della seconda nel suo svolgersi spesso, come nel caso della terra vesuviana, crudele.
La poetica leopardiana troverà una sintesi sublime ne “Il tramonto della Luna“, ultimo canto del poeta, scritto anch’esso a Torre del Greco.
Leopardi contempla, dalla posizione privilegiata di villa Ferrigni, la luna di notte, dominante tra mare e Vesuvio, e sublima nei versi aulici e raffinati di questo canto tutto il suo romanticismo ateo, ancora una volta confermando l’universalità del suo messaggio che, incontestabilmente, si eleva ed acquisisce significato al di là delle vicende personali del poeta che affida così, nell’estate del 1836 il suo testamento artistico ad una notte di luna alle falde del Vesuvio
“Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all’occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall’altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar novamente, e sorger l’alba:
alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d’altra luce giammai, nè d’altra aurora.
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura”
Da “Il tramonto della Luna”